A differenza di un soldato, il corrispondente di guerra ha la libertà di decidere dove stare, e anche la possibilità di comportarsi da vigliacco senza essere per questo giustiziato; ha la vita nelle sue mani, la può puntare su un cavallo oppure rimettersela in tasca all’ultimo momento.
Con questo spirito Robert Capa, già celebrato al tempo come “il più grande fotoreporter di guerra del mondo”, decise di unirsi, il 6 giugno 1944, alla Compagnia e nella prima ondata dell’attacco alleato alla costa francese. Come è noto, lo sbarco in Normandia, l’operazione militare più azzardata e imponente di tutta la guerra, doveva costituire l’inizio della resa dei conti con Hitler e accelerare il crollo della Germania.
Fu perciò anche un grande evento mediatico, che richiese un’adeguata copertura giornalistica e in particolare il coinvolgimento dei migliori fotografi: erano loro a dover convincere il mondo incredulo, con la forza dell’immagine del reale, che la guerra si avvicinava davvero alla fine.
Con queste premesse il fotografo che, con il celebre miliziano spagnolo colpito a morte, aveva dato l’avvio nel 1936 a un’idea mitica ed eroica del fotogiornalismo di guerra, non poteva “rimettersi la vita in tasca”, doveva scegliere la prima linea. Capa non amava certo la guerra, la Normandia lo avrebbe segnato, e dieci anni dopo, partito per sostituire in Indocina un collega della Magnum, incontrò la morte per un genere di fotografia che sembrava non appartenergli più. E tuttavia con il mito bisogna conviverci.
La fotografia, nel Novecento, si è conquistata una doppia funzione, quella di costruire miti attraverso l’immagine e quella di rendere alcuni fotografi protagonisti indiscussi dell’universo dei media. Capa, giocatore impenitente, puntò sul cavallo più difficile, quello di Omaha Beach, che sarebbe diventata per gli americani un fondamentale luogo della memoria e del dolore e che diventerà un nuovo tassello della costruzione del suo mito fotografico.
Tra gli altri “turisti all’inferno” (come i soldati consideravano questi folli reporter che rischiavano la vita senza necessità) Capa fu l’unico a riportare un servizio sulla guerra combattuta, restando, insieme ai marines, inchiodato per due ore sulla spiaggia dalla difesa tedesca e scattando con le sue due Contax più di cento fotografie; il caso e la fretta però fecero la loro parte e i preziosi negativi vennero irreparabilmente deteriorati da un assistente di camera oscura di Londra: tranne undici, che divennero (è anche così che si costruisce il mito) le “magnifiche undici” fotografie dello sbarco.
L’episodio, tramandato mille volte a partire dalla prima testimonianza di John G. Morris, photoeditor di “Life” e altro protagonista della fotografia novecentesca, è stato raccontato anche in forma di graphic novel e oggi è disponibile in versione italiana. Il disegno è un’immagine fissa come la fotografia, ma in più è libero di inventare; questo racconto quindi porta efficacemente il lettore, con “realistiche” tavole in bianco e nero, nell’inferno di fuoco della Normandia, e soprattutto “dentro” i soggetti di quelle che sarebbero state le foto del servizio di Capa se non fosse andato perduto.
Gabriele D’Autilia