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Protagonista del saggio è la comunità ebraica di Amsterdam e Rembrandt funziona come punto di partenza e filo conduttore, permettendo all’autore di mettere a fuoco il vero oggetto della sua indagine, ovvero il rapporto biunivoco e complesso tra gli ebrei e gli olandesi nel Seicento.

Da un lato gli ebrei, i ricchi sefarditi spagnoli e portoghesi desiderosi di integrarsi e di costruire una nuova identità, che vestono all’olandese, non leggono bene i testi sacri, hanno case piene di quadri e tombe decorate; ma anche i poveri ashkenaziti di provenienza tedesca e orientale, che difendono l’ortodossia, conoscono a fondo la Torah e chiedono l’elemosina vestiti di stracci. Dall’altro gli olandesi, tolleranti, anche per interessi economici e politici, e disponibili a lasciarsi affascinare da quella cultura così diversa. Su questi temi Nadler vanta una grande competenza – il suo libro più importante, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, è anche un grande affresco della cultura ebraica olandese – dispiegata in sottili analisi di testi e problemi, ricostruzioni storiche di lungo periodo, ritratti di persone, descrizioni di quartieri e monumenti, esegesi di iconografie.

Prendono così corpo, anche grazie a un brillante stile narrativo, il quartiere ebraico del Vlooienburg e i suoi abitanti, Rembrandt compreso; il pragmatico ed eclettico rapporto dei sefarditi di Amsterdam con le arti figurative; il rabbino e grande intellettuale Menasseh Ben Israel; le sinagoghe della città costruite da architetti olandesi e il cimitero di Beth Haim, visitati dai più colti viaggiatori europei ma anche dagli abitanti della città.

L’identità di Amsterdam nel Seicento non può fare a meno della componente ebraica, così come l’identità degli ebrei lì stabiliti non può prescindere da quella olandese: Amsterdam d’altronde è vista da molti in quegli anni come la nuova Gerusalemme. Quello che interessa a Nadler, e qui emerge il suo punto di vista di storico della filosofia, è una comprensione sfaccettata della complessità di tale incontro variamente vissuto e declinato dai singoli. Il libro è dunque anche un esercizio di sguardo: quello dello storico che ricostruisce il passato  ma anche quello rivolto dagli ebrei agli olandesi, dai sefarditi agli ashkenaziti, e viceversa, in un mondo in cui “tutti osservavano tutti”.

È su questo piano che s’innestano arti figurative, opere, iconografie, committenti, pubblico e artisti, non solo Rembrandt, ma anche Hooghe, Witte, Ruisdael, Saenredam, Bouman e Stalpaert. Sono poche le certezze che Nadler propone, preferendo invece una posizione ferma nella difesa del confine tra possibile e probabile, quello che importa sono le domande che le opere figurative e architettoniche contribuiscono a formulare. In misura diversa e forse maggiore rispetto ai documenti scritti, ritratti, dipinti di storia e vedute, edifici e tombe sono in grado di fissare e raccontare questo sguardo multiplo, di rivelare identità, desideri di appartenenza, dialoghi, appropriazioni, stratificazioni e ambiguità. Fu anche grazie a questo che gli ebrei nei Paesi Bassi sperimentarono un’integrazione sociale e una liberazione estetica senza precedenti.

Chiara Gauna

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