UN NUOVO FILONE NARRATIVO
Ackerman appartiene a quell’ormai folto gruppo di scrittori statunitensi che, nel corso degli ultimi quindici anni, ha cercato di tradurre in letteratura le guerre americane del nuovo millennio. Anche se non tutti quelli che hanno scritto di queste guerre le hanno vissute in prima persona, molti sono reduci e tendono non solo a partire dalle proprie vicende autobiografiche, ma a concentrarsi sulla prospettiva americana, anche quando l’intento è palesemente quello di offrire uno sguardo critico sulla guerra.
Elliot Ackerman, almeno su questo piano, si distingue nettamente dai suoi colleghi. Mentre i protagonisti del suo primo romanzo, Prima che torni la pioggia, sono afghani, in Il buio al crocevia le figure di primo piano sono tutte siriane, ad eccezione del protagonista, Haris Abadi, un iracheno che ha ottenuto la cittadinanza americana per il lavoro svolto anni prima come interprete per l’esercito Usa.
Più che politiche o ideologiche, le motivazioni alla base delle scelte di Ackerman paiono squisitamente letterarie. La narrazione è in terza persona dal punto di vista di Haris che dopo aver assicurato un futuro in America alla sorella Samia vuole passare il confine turco-siriano per unirsi all’esercito di liberazione in lotta col regime di Assad.
UN ROMANZO DI FORTI LEGAMI
Il romanzo ruota attorno ai forti legami che in pochi giorni il protagonista, spinto da un senso di colpa sia come iracheno sia come neoamericano, costruisce con Amir e Daphne, una coppia di rifugiati siriani. Ma non meno significativo è il legame che Haris stringe con Jamil, uno delle migliaia di ragazzini sradicati e abbandonati che battono le strade della città in cerca di cibo e denaro, dormendo in campi di fortuna sotto baracche o tendoni improvvisati.
LINGUA E ATMOSFERE ALLA HEMINGWAY
Costruito in modo lineare Il buio al crocevia disegna in modo efficace un mondo di inganni infiniti, disperazione e violenza grazie a un linguaggio scarno e preciso. Il modello è chiaramente il primo Hemingway, e la vicenda di amore e guerra narrata da Ackerman, pur se distante da quella di Addio alle armi, condivide con quest’ultimo testo alcune tonalità, atmosfere e situazioni. Certamente vicino a Hemingway nella predilezione per una lingua disadorna, solo occasionalmente punteggiata da metafore, Ackerman con le sue scelte lessicali pare voler riflettere l’esaurirsi della speranza, l’impossibilità a tradurre il mondo osservato in qualcosa di più della sua essenziale e nuda fisicità.
UN TRIBUTO A TERRENCE MALICK
Può sorprendere che, nel finale, Ackermann non rinunci a un’immagine tacciabile di sentimentalismo: quella dei ciuffi d’orzo che crescono dai semi un tempo stretti nella mano di un’ennesima vittima innocente. L’immagine ricorda il germoglio di noce di cocco che chiude La sottile linea rossa di Terrence Malick. La possiamo leggere come segno di una speranza cui Ackermann non si sente di rinunciare completamente. Oppure, meno ottimisticamente, come nulla più di un tributo a una vita e una bellezza del tutto indifferenti alla presenza umana.