Insegnare è una vocazione e Carla de Falco lo sa molto bene.
Dalle sue parole riluce tutta la consapevolezza della scuola, il mondo cui appartiene. Nel raccontare il percorso che l’ha portata in cattedra, de Falco lascia trasparire un entusiasmo che lei stessa non esita a definire “tipico di un ragazzino di diciassette anni”.
Dopo un’esperienza decennale nella gestione delle Risorse Umane, “folgorata sulla via di Damasco”, decide di dedicarsi all’insegnamento. E, appunto per vocazione, oggi è docente di lettere presso il liceo classico Umberto I di Napoli, scuola storica del quartiere Chiaia che ha visto frequentare le proprie aule da molti talenti e personaggi di spicco, tra cui il regista Mario Martone e l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nella testimonianza che la Professoressa ci regala, troveremo tutti un ricettario per incentivare gli adolescenti a leggere, per renderli partecipi di una modalità educativa più vivace e contemporanea.
Prendendo questo abbrivio, nel tessuto culturale del liceo Umberto I prosperano esperimenti didattici fecondi che vedono protagonisti ragazze e ragazzi di ogni estrazione e retaggio, di età comprese fra i tredici e i diciannove anni.
L’elemento distintivo delle sperimentazioni portate avanti è il prezioso valore formativo attribuito ai libri, tramite proposte capaci di stimolare gli studenti e catturarne l’attenzione. L’interpretazione dei testi con un linguaggio diverso, in particolare quello audiovisivo, si è rivelata qui una risorsa inestimabile per riesaminare prassi pedagogiche superate e per vincere la netta avversione che tanti adolescenti provano nei confronti della lettura.
Questo approccio didattico, contraddistinto dall’attuazione di progetti straordinari e coraggiosi, oltrepassa i limiti imposti ai ragazzi dalla lettura discontinua e smaterializzata cui smartphone e tablet spesso inducono e, soprattutto, valica le frontiere che ogni giorno attraversiamo tutti: specialmente gli studenti che hanno visto le proprie speranze e aspettative messe a durissima prova dalla reclusione seguita alla pandemia. Di questo e di altro parleremo con la Professoressa Carla de Falco, nel corso di un’intervista a tutto campo per fare il punto sulla scuola italiana, in uno dei momenti più delicati che il nostro Paese abbia attraversato nella sua storia recente.
Buongiorno, Professoressa de Falco. Nel corso del suo esercizio presso il liceo Umberto I, ultimamente, ha notato un cambiamento nell’approccio pedagogico dei docenti e nella risposta fornita dai ragazzi?
Certamente c’è un approccio didattico in via di rinnovamento.
I dipartimenti sono sinergicamente tesi nello sforzo di proporre una didattica viva, soprattutto per il liceo classico, da lungo tempo accusato di passatismo. L’introduzione di nuove logiche, di nuovi linguaggi, – ad esempio quello fotografico e quello cinematografico – è uno sforzo che vedo condiviso a scuola e che i ragazzi hanno accolto con entusiasmo. Quello audiovisivo è un linguaggio familiare agli studenti, perciò è divenuta la costante della routine didattica e non è più vissuta come qualcosa di bizzarro o, peggio ancora, di “kitsch”.
Potrebbe accennarci il percorso appena illustrato raccontando un momento di relazione con gli studenti?
Beh, partirei proprio dall’incontro con gli autori!
Figuratevi: quando abbiamo proposto quest’esperienza, a scuola, sembrava difficile perfino gestirne la parte logistica! trovare uno spazio da dedicare a questo momento appariva come una complessità da sommare a tutte le incombenze quotidiane che la scuola deve affrontare normalmente. Negli anni, però, l’importanza di questo momento è cresciuta al punto che ho capito quanto il lavoro stesse funzionando bene quando anche l’aula più grande del nostro Istituto non bastava più a contenere i ragazzi curiosi.
Gli studenti, passo dopo passo, si sono trasformati nei reporter dell’iniziativa, sono diventati i fotografi ufficiali dell’evento, gli intervistatori ufficiali, il comitato di accoglienza… loro si prendevano la scena e l’evento chiedeva nuovi spazi! A un certo punto, ho notato che cominciavano a darsi un tono nell’abbigliamento quando c’era l’incontro con un autore: si accordavano su come presentarsi e questo per me voleva dire aver trasformato la letteratura in un prodotto d’attesa, in qualcosa che loro volevano avere e di cui volevano fruire come protagonisti.
Su che libri – e con quali autori – avete lavorato?
Alcuni incontri si sono svolti a scuola, trasformata per l’occasione in luogo di confronto. Altri incontri sono avvenuti in trasferta, portando i ragazzi nelle librerie, in altre scuole o presso centri culturali. Ricordo grande entusiasmo per Dacia Maraini, per Niccolò Ammaniti e una commozione profonda, condivisa da tutti nel corso dell’incontro con Tatiana Bucci, che raccontava la sua esperienza di bambina nel lager. Era come se gli studenti avessero preso consapevolezza che quei fatti erano esistiti davvero; che, fuori dai libri, Auschwitz era esistita davvero. Tant’è vero che alcuni mi hanno confessato che avrebbero voluto vedere il braccio tatuato di Tatiana.
“Perché?” mi sono a lungo domandata, “perché quella curiosità morbosa?” E perché avevano bisogno di un contatto con quel pezzo di storia che a loro viene sempre e solo raccontato? Perché non si trattava più di un racconto fruito passivamente da meri spettatori.
I ragazzi si sono sentiti protagonisti della testimonianza comprendendo quanto fosse epocale.
Ci sono stati poi gli incontri a scuola con Wanda Marasco, Andrej Longo, Lorenzo Marone, Giuseppe Catozzella, Paolo Siani, Antonella Cilento, Ruggero Cappuccio, Francesco Casolo, Alì Ehsani e un incontro commemorativo dedicato ad Alessandro Leogrande con le testimonianze di migranti e di rappresentanti di alcune ONG. Nel corso di queste occasioni, mi è parsa veramente intensa la voglia degli adolescenti di partecipare al processo di ricostruzione soprattutto degli anni ’80 e ’90, a proposito dei quali, spesso, noi adulti diamo per scontato che i ragazzi siano poco informati.
Ed è stato toccante vedere come nelle nostre aule, per un paio di mesi, Paolo Borsellino si fosse trasformato in un’icona e i miei alunni lo chiamassero quasi amichevolmente “Paolo”.
Ci racconta qualcosa del progetto di traduzione delle parole in immagini?
Questo è stato in qualche modo un punto di svolta.
Vede, il problema è che quando proponi un libro in lettura e questo libro si somma al resto del programma scolastico, hai strumenti limitati per verificare che la lettura sia stata davvero fatta e abbia agito nel profondo. Gli elementi di distrazione della lettura immersiva sono diventati così tanti che è difficile seguire il meccanismo attraverso il quale un adolescente legge, perché questi ha un tempo di attenzione che non supera i venti minuti e, avendo tanti aiuti che provengono dal Web, non ha familiarità con la pagina stampata. Allora, un primo modo che mi è parso utile per verificare se loro avessero letto e fossero “entrati” nel libro è stato quello di provare a chiedere loro: “Se questo libro mancasse di una pagina, voi quali pagine aggiungereste?” oppure “in quale passaggio stravolgereste la trama? Adesso scrivetelo nello stile dell’autore.”
Un esercizio che li costringeva a entrare nello stile e nel mood dell’autore e a cercare di impossessarsi, un po’ calvinianamente, del testo e a riscriverne gli ipotetici spazi bianchi. A questo, poi, ho affiancato il progetto di riscrittura del libro per immagini e musica, cioè attraverso l’utilizzo degli smartphone, spesso visti come sleali antagonisti dell’apprendimento. Col tempo abbiamo imparato in che modo si potessero tradurre in un solo fotogramma, con una successione di immagini o montando un sonoro su sequenze filmate, lo spirito, il lessico, lo stile e l’intenzione dell’autore. L’aspetto più interessante di questi incontri è stato che alcuni autori si sono commossi: è stata una cartina al tornasole del fatto che i ragazzi fossero arrivati al cuore del messaggio della storia, che è ciò che ogni scrittore in fondo desidera. Assistere a questi momenti emozionanti e unici ci ha fornito la conferma che eravamo sulla strada giusta.
I ragazzi hanno vissuto uno iato impossibile da ignorare: la frattura determinata dalla pandemia e dalla didattica a distanza. Quale ricetta consiglierebbe, per la ripartenza?
Sì, ora comincia un lavoro di ricucitura che rende necessario ritessere in primis la trama del rapporto di relazione con gli studenti e con l’istituzione, e poi anche provare a utilizzare quegli stessi strumenti innovativi e trascinanti: le nostre lezioni sono cambiate, l’ausilio di alcuni strumenti di tipo informatico è divenuto di uso quotidiano. L’emergenza ha accelerato la ricostruzione di quel rapporto maieutico che si alimenta del contatto, della vista, della relazione tra gli studenti e il docente, ma ha anche spinto ad avvalersi di quegli strumenti che la pandemia ci ha piazzato tra le mani e di cui – sono convinta – la scuola italiana saprà far buon uso. È fondamentale restaurare la comunicazione attraverso lo sguardo, i sorrisi, i volti stessi… persino il ghigno di un insegnante può mancare, agli studenti! Ed è fondamentale che tutto questo ritorni in classe. In fretta, insieme a una didattica rinnovata.
Abbiamo parlato di limiti e barriere da superare: cosa significa per lei “sconfinare”?
C’è in me un aspetto di introspezione che talvolta si è espresso attraverso la poesia e la letteratura, ed ho spesso indagato nei miei versi il concetto di frontiera. La trovo quel luogo mobile nel quale, piano piano, cambiano i visi, le lingue, i volti e, senza che tu te ne accorga, ti ritrovi in un’altra identità. In qualche modo la frontiera è la dimensione della metamorfosi, il divenire lento che ci accomuna tutti nel fluire della vita: quell’orizzonte che abbiamo davanti a noi stessi e che attraversiamo ogni giorno cambiando qualcosa senza neanche accorgercene.
Poi ci guardiamo allo specchio e abbiamo cinquant’anni.