Al pari di altri personaggi che hanno vissuto vite autenticamente transnazionali nell’età delle rivoluzioni, anche Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva – alias Anita Garibaldi – è stata oggetto, dopo la morte, di processi di nazionalizzazione paralleli. Tra Otto e Novecento la (prima) moglie (brasiliana) di Giuseppe Garibaldi è così diventata una figura di rilievo nelle narrative patriottiche tanto della terra d’origine, dove nacque nel 1821 quanto nella patria d’adozione, dove risiedé – per lo più a Nizza, allora nel Regno di Sardegna, per quattro mesi tra Rieti e Roma sotto assedio e molto viaggiando, da sola per raggiungere il marito o al seguito dei suoi soldati – tra il marzo1848 e l’agosto 1849. Fu allora che morì, incinta del loro quinto figlio, durante la drammatica e sfortunata fuga dei difensori della Repubblica romana verso Venezia, nel pieno dei rovesci della rivoluzione italiana.
Una biografia appassionante
Di andirivieni transatlantici come questi, di vite vissute e vite rappresentate, tra Europa e Americhe, si sostanzia la bella ricerca di Silvia Cavicchioli, tanto nel primo capitolo, dedicato alla ricostruzione della biografia di Ana Maria, appassionante anche perché largamente indiziaria, quanto nei tre seguenti, dedicati alla faticosa conquista di un diritto al ricordo pubblico da parte di questa donna per più versi irregolare: straniera; analfabeta; abile e appassionata nel maneggio delle armi; irriducibile ai codici europei dell’educazione sentimentale e sociale femminili (l’amore per Garibaldi nacque adulterino, il loro matrimonio seguì di oltre un anno la nascita del primogenito Menotti, la loro vita di coppia fu ispirata a insolita parità); coinvolta in esperienze politicamente radicali; morta in circostanze a lungo dibattute e instabile persino da defunta, dal momento che le sue spoglie furono inizialmente occultate e poi fatte oggetto di reiterati disseppellimenti, indagini medico-legali e traslazioni – un destino all’epoca assai più comune e meno perturbante per i resti di combattenti e politici uomini.
Il peso di Garibaldi
Garibaldi, finché in vita, condizionò ogni discorso sulla memoria della moglie e per un decennio anche il silenzio su di lei. Cavicchioli segue il generale sia nelle pieghe e nelle pratiche più intime del lutto, sia nei tentativi di costruire un’immagine di Anita che rispondesse ai dettami del martirologio patriottico e fosse nondimeno coerente e funzionale all’evoluzione della propria stessa immagine pubblica, ancor più quando nella sua vita subentrarono altre relazioni e infine un’altra famiglia.
A cavallo sul Gianicolo
Infine, il volume si sofferma sul contributo specifico dei nuovi media del secolo, dei loro codici, anch’essi largamente transnazionali, e delle contingenze politiche che li condizionano, nel forgiare stereotipi narrativi o visivi destinati a lunga durata, in particolare sulla coppia di eroi: il puzzle Anita si compone così di tessere che vanno dalle cronache di giornale alle narrazioni romanzate (centrale il ruolo di Alexandre Dumas), dal genere di successo degli scritti biografici e autobiografici ai nuovi prodotti di una cultura visuale effervescente e omnipervasiva. A questo riguardo, Cavicchioli discute giustamente in molte pagine il potere e la circolazione dell’iconografia della donna – altalenante tra le figure della morente e martire, della madre e sposa esemplare e dell’amazzone indomita – in dipinti, innumerevoli illustrazioni a stampa e nei primi monumenti che, per le peculiarità di un genere come la scultura pubblica, tendono inizialmente a sublimare le contraddizioni di questa donna mediante il ricorso all’allegoria, fino al grandioso monumento equestre sul Gianicolo che nel 1932, cinquantenario della morte di Garibaldi, fu eretto per accogliere le sue ossa, oggetto di un’ultima traslazione.
Alessio Petrizio