“Tu e tutti quelli come te, come mio padre, come la brava gente che ha fatto finta di niente ed è sempre stata al suo posto. Nessuno è innocente dopo vent’anni di dittatura; nessuno si salva dopo una guerra così”.
In questo dialogo tra partigiani, risiede uno dei nuclei di significato più importanti di Morire il 25 aprile, primo romanzo del teorico della letteratura Federico Bertoni, circa l’azione umana all’interno della storia.
Docente presso l’Università di Bologna, lo studio di Bertoni si è concentrato negli anni sulla storia e sulla letteratura della Resistenza, e trova ora in questo romanzo una messa in pratica che nasce anche da una vicenda personale, cioè dal legame con il partigiano Vincenzo Sutti, “Farfalli no”, il Julien del romanzo, morto il 25 aprile del 2003. Le vicende raccontate da Bertoni si snodano su due diverse linee temporali: il narratore e protagonista della storia, che si muove nei primi anni del nuovo millennio, non riesce a sopire le domande essenziali sulle vicende della Resistenza ma soprattutto sulla convivenza con il regime fascista:
“Voi che cosa fareste? Anzi, provate a chiedervelo: che cosa avete fatto?”. Per tentare di rispondere a questa interrogazione il protagonista studia la storia dei partigiani e il loro eroismo.
In particolare il narratore andrà in cerca della verità su Julien, protagonista della storia narrata nel passato e leggendario comandante partigiano, tentando di ricostruire una oscura storia di violenza nei confronti della sua famiglia. Nell’alternarsi dei momenti narrativi, sorge uno scontro ideale tra i due protagonisti sulle modalità attraverso le quali è possibile partecipare alla storia: se infatti durante gli anni di Julien una partecipazione attiva, o quantomeno la sua illusione, era possibile perché direttamente chiamati in causa, nella contemporaneità l’uomo è relegato ad una posizione passiva perché i fatti storici assumono un carattere fumoso e inafferrabile nel quale è assai difficile ancorare degli ideali collettivi.
Emblematica da questo punto di vista la scena in cui il protagonista viene a conoscenza dell’inizio dei bombardamenti ordinati dagli Stati Uniti in Afghanistan: la notizia viene appresa da una televisione accesa durante un atto sessuale e nonostante i tentativi di resistenza del protagonista, il momento erotico supera questo interesse: “Hanno attaccato l’Afghanistan. Gli americani. Stanno bombardando da ore. E noi eravamo qui a ballare Il tempo delle mele!È scoppiata la guerra! E qui nessuno sapeva niente!”. C’è in realtà nel romanzo un terzo periodo storico che, non direttamente presente nella narrazione, fa comunque più volte capolino: sono gli anni ottanta all’interno dei quali Bertoni individua parte della degenerazione presente, con la scomparsa degli ideali e una memoria che inizia a farsi sempre più breve. Non che gli anni ottanta siano privi di fatti storici fondamentali, ma il cambio di verso sta nel fatto che tali mutamenti non acquisiscono più un ruolo primario, ma diventano un sottofondo su cui scorrono le vite individuali.
Durante una serata mondana in cui si trova suo malgrado, il protagonista e una donna, che incontra dopo anni e che adesso può dargli informazioni necessarie per la ricostruzione della vicenda di Julien, iniziano ad elencare i fatti storici di quel decennio, nominando la strage della stazione di Bologna, Ustica, la morte dei tifosi juventini all’Heysel, il terremoto in Irpinia, Cernobyl, lo sviluppo dell’AIDS, il referendum sull’aborto, gli attentati al Papa e a Reagan e molti altri avvenimenti. Alla fine del gioco i due si chiedono, con un’interrogazione che in realtà si fa collettiva e che riguarda tutta una generazione, dove erano in quegli anni, perché sono “successe un sacco di cose” che tendono a contrastare l’etichetta di “disimpegno e yuppies” che al decennio è stata appiccicata: “è una cosa strana, una specie di scollamento tra noi e gli eventi.
Non voglio fare sempre la vittima, ma secondo me alle generazioni precedenti non è successo. Almeno non così. Come se la nostra vita e la vita del mondo scorressero su due binari separati. Queste cose enormi che ti scivolano addosso, e il giorno dopo non te le ricordi più”. In questo meccanismo Bertoni rintraccia anche un carattere indiscutibile della nostra contemporaneità, dove il flusso di informazioni è talmente grande e sgrammaticato da rendere di fatto assai complessa una comprensione d’insieme e, ancor di più, un impegno fruttuoso. Il libro di Federico Bertoni è quindi un libro fortemente politico che, nella magistrale padronanza dell’intreccio delle diverse storie, fa riaffiorare dubbi ed interrogativi che sempre più rischiano di essere insabbiati, mostrando come un’interrogazione sulle cose ultime e sull’agire umano sia, oggi, sempre più necessaria.
Matteo Moca