Risale a domenica 7 maggio 2017 la notizia che 82 delle oltre 250 liceali rapite nell’aprile 2014 da Boko Haram sono state liberate, in seguito a lunghe trattative e intensi negoziati tra il governo federale nigeriano e il gruppo integralista islamico, con la mediazione della Croce rossa internazionale e del governo svizzero.
L’annuncio, oltre che riaccendere la speranza e provocare un sospiro di sollievo collettivo, riporta l’attenzione su una forza del terrore che da quasi due decenni imperversa sulla Nigeria e sta creando reti pericolose anche al di fuori dei suoi confini, soprattutto con l’Isis che in Siria e in Iraq persegue il medesimo obiettivo di cancellare dal territorio tutte le tracce di cultura preislamica.
Di questo tratta Wolfgang Bauer, giornalista della testata tedesca “Zeit”. Nel suo testo si alternano le testimonianze dirette che Bauer ha raccolto in Nigeria nel 2015, conversando con alcune delle donne che erano precedentemente riuscite a fuggire, e una retrospettiva dettagliata sulla nascita, diffusione e sviluppo dell’organizzazione.
Da pacifico gruppo di ispirazione spirituale nato alla svolta del millennio sotto la guida del predicatore carismatico Mohammed Yusuf, Boko Haram si è tramutato gradatamente in un’armata di guerriglieri e oggi è un vero e proprio esercito del terrore. Abubakau Shekau, nuovo leader del gruppo, nei suoi videomessaggi e proclami pubblici inneggia alla riduzione in schiavitù e allo stupro come armi necessarie per il trionfo dell’islam.
A suo dire, il mantenimento del potere si ottiene impedendo all’istruzione occidentale di diffondersi: “L’educazione occidentale è peccato”, da cui il rapimento delle 267 studentesse nel 2014 a Chibok, villaggio nel nordest della Nigeria, e la loro reclusione e riduzione in schiavitù.
La sua figura è circondata da miti e leggende che non appartengono alla tradizione islamica ma a una molto più antica. Si dice che abbia poteri magici, tra cui quello di rendersi invisibile. Capitale del califfato islamico di Boko Haram e luogo di segregazione delle sue vittime è la foresta di Sambisa, si crede stregata da una maledizione primordiale, costituita da alberi alti pochi metri, con rami nodosi e attorcigliati e un sottobosco infestato da rovi affilati, dove regnano buio impenetrabile e terrore, tra paludi e animali feroci.
Qui le donne tenute prigioniere subiscono trattamenti disumanizzanti e assistono alle peggiori efferatezze: decapitazioni, bombardamenti, stupri, lapidazioni, devastazioni sono all’ordine del giorno. Non di rado le ragazze vengono costrette a compiere attentati suicidi con l’esplosivo nei villaggi circostanti e qualcuna di loro dopo mesi di prigionia e torture fisiche e psicologiche arriva ad agire per convinzione, così ammonendo le nuove arrivate: “Anche noi siamo state rapite ma dovete rassegnarvi, qui state compiendo l’opera di Dio”.
Il libro è corredato di suggestive fotografie in bianco e nero che ritraggono le donne intervistate da Bauer dando loro un volto ed una voce. Sono studentesse, commercianti, contadine, madri e figlie, bambine a donne adulte, che raccontano le loro esperienze prima del rapimento nei villaggi, e che ora rischiano di non essere riaccettate o di venire emarginate dalle loro comunità per il marchio indelebile che questa esperienza ha inciso sui loro corpi e sulle loro anime.
Di pari passo con le testimonianze, Bauer ricostruisce uno spaccato della vita dell’organizzazione, la cui crudeltà ha un’ispirazione moderna quanto arcaica, in una zona del paese, il nord della Nigeria, quasi priva di infrastrutture, orientata verso l’Arabia Saudita e il Sudan, agitata già da quindici anni dal dibattito sulla sharia intesa come arma verso l’eliminazione di ogni corruzione e arbitrio. Tra i gruppi e movimenti religiosi sempre più radicali che qui nascono e altrettanto rapidamente scompaiono, Boko Haram è la creatura più giovane ma anche la peggiore sinora emersa da questo caos: si stima che sia composto da circa 50.000 combattenti armati. Da quando hanno avviato la loro jihad contro il governo di Abuja, i Boko Haram hanno ucciso oltre ventimila persone e costretto ad abbandonare i loro villaggi più di due milioni di persone.
In un paese di 190 milioni di abitanti frazionati in 514 gruppi etnici per lo più in lotta tra loro, vessato da una dilagante corruzione a tutti i livelli, l’economia cresce, lo stato si indebolisce e il terrorismo si rafforza. Eppure la questione pare essere ancora non sufficientemente nota presso l’opinione pubblica internazionale, o almeno non così pressante nelle agende globali.
Immediatamente dopo il rapimento di Chibok un grido di indignazione si è levato da est a ovest. Con la creazione dell’hashtag #bringbackourgirls, personalità come Michelle Obama negli Stati Uniti e il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai se ne sono fatte portavoce, chiedendo la liberazione delle ragazze, che purtroppo non sono un caso isolato. Migliaia di donne sono da anni nelle mani dei fondamentalisti, da cui la necessità di mantenere alta l’attenzione internazionale e far sì che questa liberazione porti in fretta a molte altre.
Francesca Giommi